La Voce di Romagna, 24 novembre 2006
Anzitutto, mi
scuso. Mi scuso perché un titolo così proprio non si dovrebbe fare e, inoltre,
non è nel mio stile. Mi scuso con le lettrici della Voce e spero che non mi
vengano date patenti di maschilismo. Semplicemente, la definizione non è mia e
per questo ho chiesto e ottenuto dal Direttore di mettere il titolo – peraltro
irrinunciabile – tra virgolette.
La definizione,
infatti, è di un anonimo ragazzo con cui ho fatto il viaggio in corriera da
Urbino a Pesaro qualche tempo fa. Sapete come capita in corriera: uno si siede
volendo sonnecchiare e dietro vi si piazzano due che parlano a voce alta, e le
loro vicende diventano immancabilmente le vostre. Se anche uno non vuole
ascoltare, non può non sentire. È così che ho sentito la storia del “potere
delle tette”. Ve la riporto.
I miei due
compagni di viaggio erano un ragazzo e una ragazza, entrambi studenti
universitari. Come tanti altri studenti, almeno quelli iscritti all’Università
di Urbino, anche questi arrotondano i soldi dei genitori con qualche lavoretto.
È vero che questo fa sì che gli appelli d’esame soprattutto di settembre,
quelli dopo la “stagione”, siano poco frequentati e che gli anni d’iscrizione
si allunghino inevitabilmente, ma tant’è: anche gli anni di vita studentesca si
allungano e questo può avere i suoi lati positivi…
Insomma, i due
parlano e scoprono che fanno lo stesso lavoro: il barman (e la barwoman,
direbbe qualche anglofono politically correct). Ancora un paio di frasi e il
ragazzo assume un tono risentito, quasi di sfida. Dal momento che lavorano a
giornata e solo le sere che i bar ne hanno necessità, lui si lamenta del fatto
che subisce la “concorrenza sleale” della ragazze. La chiama proprio così:
concorrenza sleale. Dice che se il titolare di un bar ha la possibilità di
scegliere, le ragazze vengono sempre preferite ai ragazzi. “Per questo i
ragazzi devono diventare molto professionali, se vogliono lavorare in questo
campo. Devono diventare dei veri professionisti. Sai anche tu com’è” – conclude
enigmaticamente. A differenza della ragazza, io, per la verità, non so com’è,
ma questo è un altro handicap della corriera: una volta che senti un discorso
interessante, non è che puoi intrometterti disinvoltamente e chiedere
spiegazioni (“No, scusi. Io non ho capito. Non è che potrebbe spiegarmi…”).
Il dialogo
prosegue serrato. Parlano della vita dura del barman, concordano
sull’impossibilità di fare questo lavoro per molti anni, soprattutto se si
vuole finire l’università. Poi passano a confrontare le retribuzioni e le
trovano analoghe. “Bene – penso tra me. – Almeno in questo campo non c’è
discriminazione”. Ma il ragazzo incalza. “E le mance?”. Già, non ci avevo
pensato: ci sono anche le mance. “Dai - insiste lui. – Dimmi quanto prendi di
mancia in una sera?”. La ragazza spara una cifra sostanziosa e io mi perdo a
confrontarla con il mio stipendio diviso per i giorni del mese. Quando riemergo
dalla deprimente esperienza del confronto, scopro che lei ha fatto una specie
di classifica. “Dunque – dice lei – ho notato che le mance dipendono da come
sono vestita. Ma non è come tu pensi!”. Ah, per fortuna, non è come pensa lui.
Sicuramente è una brava ragazza e una studentessa modello. “Ah, sì. E com’è?” –
fa lui.
“Vedi – fa lei
-, è sbagliato pensare che più ti svesti e più ti danno di mancia. Non c’è una
proporzione così diretta. Ad esempio, io ho notato che l’abbigliamento con cui
tiro su più mance non sono le camicie scollate: è una maglia attillata che
lascia scoperte le spalle. Quando ho bisogno di soldi, mi metto quella maglia e
torno a casa con borsellino gonfio”.
“Lo so – dice
lui. – È quello che io chiamo ‘il potere delle tette’. Non solo vi danno il
lavoro anche se siete meno professionali di noi, ma guadagnate anche di più.
Non lo sopporto questo potere delle tette”. La ragazza non si scompone. La sua
replica, però, è tagliente. “E a chi vuoi darne la colpa? Sono gli uomini che
guardano e che sborsano”.
Lui si prende
l’ultima parola, mentre già ci prepariamo a scendere: “Dimmi solo una cosa. Tra
te e una prostituta che si vende per soldi che differenza c’è? Ovvio che c’è
una differenza, lo vedo anch’io. Ma credo che sia una differenza solo ‘di
grado’, non una differenza qualitativa”.
Scendo con un
brivido, anche se è una giornata tiepida.
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