La Voce di Romagna, 29 settembre 2006
Qualche tempo fa scrivevo dello “spagogn”,
il tipo di romagnolo rustico, scontroso, quello che rifiuta i complimenti e
gira l’angolo non appena il discorso diventa troppo sentimentale e sdolcinato.
Ora trovo una nuova conferma di questo tratto romagnolo in un libro di “modi di
dire” e indovinelli in dialetto raccolti da Libero Ercolani, laddove tratta il
vocabolo “moglie”. Scrive Ercolani:
“ ‘Su mê’: Sua (o loro) madre. La moglie.
Il vecchio romagnolo difficilmente diceva: ‘mia moglie’; altrettanto
difficilmente la indicava con il nome di battesimo. Ricorreva all’espressione
‘su mê’, indicandola indirettamente come la madre dei propri figli.
‘Cla dòna ch’a j ho a ca’: Quella donna che
ho a casa. Un altro giro di parole con il quale il vecchio romagnolo evitava di
dire: ‘mia moglie’. Così come per non dire ‘ti amo’ (‘amare’ non esiste nel
dialetto romagnolo) diceva ‘a t’ voj ben’, ti voglio bene. Forse perché ‘ti
amo’ per il suo carattere era troppo raffinato”.
Fin qui Ercolani, il quale, conseguentemente,
nel suo “Nuovo Vocabolario Italiano Romagnolo” non riporta il verbo “amare”,
traduce “amante” con “amig” e “amoreggiare” con “smurusêr”.
Fa riflettere questa nostra natura
scontrosa di romagnoli, questo rivoltare la lingua per evitare di dire “ti
amo”, quasi fosse l’ammissione di un’imperdonabile debolezza, una resa
disonorevole, per giunta a beneficio di una donna. Si sente qui l’eco dello
spirito romagnolo indipendente (e un po’ misogino) che rifiuta di mostrarsi
incatenato, aggiogato. Poi – è facile immaginare – una volta chiusa la porta e
lasciata la curiosità dei vicini fuori di casa, le presunte indipendenze
venivano probabilmente chiarite, le gerarchie ristabilite. Sia chiaro: non
senza pagar pegno, non senza lotta. Oggi diremmo che il matrimonio romagnolo
doveva essere “challenging”, per dire che era anche una sfida, una contesa
d’amore, che non era il magico incastro raccontato dalla letteratura romantica.
No; come tutte le relazioni autentiche richiedeva un paziente lavoro di lima e
di pialla per smussare gli spigoli e addolcire i caratteri. Il matrimonio non
era una telenovela e “ti amo” non era una frase banale, che si può dire a
chiunque, più volte.
In compenso, in questo “a t’ voj ben” era
implicito l’amore come frutto della volontà, come il “volere il bene”
dell’altro. In un mondo dove i genitori hanno rinunciato a indicare ai figli
qual è il loro bene e i politici non si vergognano di nulla e tutto
giustificano perché “non è penalmente perseguibile”; in una società in cui la
massima fondativa della morale “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (Mi è amico Platone, ma mi è più amica la verità) viene
regolarmente rovesciata nel suo opposto (“Prima gli amici indipendentemente dal
loro valore”) e in cui la volontà sembra che non abbia a che fare con il
matrimonio (“Cosa ci potevo fare? Mi sono innamorato”), il vecchio romagnolo
che a fatica tira fuori un onesto “ti voglio bene” ci sta davvero simpatico.
Pensa che il bene esista, ha di
mira il bene, il bene suo e della moglie. È riservato, non si svende, ha una
sua interiorità, non è a disposizione della prima sventola che passa. E un
giorno, ormai da vecchio, vincendo
infine il proprio pudore, si avvicinerà a sua moglie, e quando ormai lei non ci
conterà più, le sussurrerà all’orecchio: “Ti amo”. E lei, con il sorriso di chi
la sa lunga gli risponderà: “Al saveva nêca prêma” (Lo sapevo già).
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