sabato 29 dicembre 2012

Quel gran pezzo della... figlia del capitano


La Voce di Romagna, 13 gennaio 2012


Domenica e lunedì, in prima serata, la Rai ha mandato in onda la Figlia del capitano, minifiction tratta da un romanzo storico di Puškin. Non solo la Rai l’ha mandata in onda, ma i dati auditel l’hanno premiata concedendole la palma della vittoria sul Grande Fratello nella prima puntata, e su Ballarò nella seconda. O gli Italiani hanno mostrato di apprezzarla, oppure hanno pensato che fosse la trasmissione meno peggiore della serata. Ohibò! Puškin, nel frattempo, si rivoltava nella tomba.

Ora, a difesa del povero Puškin e dell’intera letteratura russa, lasciatemi fare qualche considerazione su ‘sta Figlia del capitano prodotta da Edwige Fenech.


Anzitutto, i nomi. Primo Reggiani, che ha sopracciglia nerissime e grossissime come nessun russo si è mai sognato di avere, interpreta la parte del protagonista, Petr Andreevič Grinëv. Grinëv in russo si pronuncia “Griniof”, come Gorbacëv si pronuncia “Gorbaciof”. Per tutte le due serate lo abbiamo sentito chiamare “Grinev”. Non un buon inizio.

L’ambientazione geografica. La “fortezza” in cui si svolge gran parte dei fatti è in realtà un villaggetto collocato nella steppa della regione di Orenburg. Steppa, cioè «pianura di cui non si scorgono i confini, tutt'al più con lievi avvallamenti». Ora, la Fenech production ha pensato bene di fare di questa fortezza una specie di Forte del Far West, come quello di Rin Tin Tin o dei Forti di Forte Coraggio. E l'ha collocato sotto una specie di sperone dolomitico che a Orenburg hanno visto solo in cartolina.

Sui particolari dell’ambientazione culturale è meglio sorvolare per carità di patria. Non si può tuttavia non menzionare la «preghiera a mani giunte» dell’ortodossa figlia del capitano. Gli ortodossi, ovviamente, non pregano a mani giunte: è questa, infatti, una modalità passata dalla cultura laica feudale – come espressione della fedeltà al vassallo – alla preghiera occidentale – espressione della fedeltà a Dio.

Ma la cosa più improbabile di questa minifiction è la trasformazione, in buona parte riuscita, della morigerata Figlia del capitano in una commedia boccaccesca all’italiana (sia detto senza calunniare il povero Boccaccio). Perbacco! Non più tardi di una settimana fa la Fenech ha inveito sui giornali contro il destino cinico e baro che l’ha costretta negli anni Settanta a spogliarsi in film di Serie C: «L’ho fatto solo per sopravvivere, perché ero una ragazza madre. Ma era una grande umiliazione» –­ ha affermato. Con tanti saluti a Walter Veltroni e agli altri estimatori della commedia erotica di quegli anni che non si erano accorti quanto questa svilisse e offendesse la figura della donna.


La Figlia del capitano trasmessa dalla Rai introduce proditoriamente nel racconto di Puškin una Caterina II interpretata dalla stessa Edwige Fenech. Ora, che Caterina abbia avuto numerosi amanti e favoriti, non c’è il minimo dubbio. E tuttavia Puškin mostra l’imperatrice solo nel finale, nelle scene che risolvono l’intera vicenda: il suo incontro in incognito con la protagonista femminile Maša, e il successivo disvelamento con la grazia accordata a Grinëv. Niente amanti, niente sguardi lascivi, nessuna accoppiata nel Palazzo d’Inverno.

Naturalmente, una moderna reinterpretazione della Figlia del capitano  può introdurre nuove scene, nuovi personaggi, per rendere più appetibile il piatto servito dopo cena dalla Rai. E tuttavia colpisce che la Fenech trasformi Caterina II in una nonna dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. Perché darsi la pena di scomodare Puškin, a questo punto. Sarebbe stato più onesto produrre direttamente una minifiction intitolata La nonna di Giovannona Coscialunga o L’Ubalda: vent’anni dopo è ancora calda.

Alla fine della storia, dopo che è stata ristabilita la verità dei fatti, Grinëv si vede restituiti onore e dignità e si sposa con l’amata. Quella che in Puškin è una paginetta finale che vede i giovani convolare a nozze, nella fiction della Fenech vede i due innamorati infilarsi sotto le lenzuola ancor prima del matrimonio. Con tanti saluti alla coerenza psicologica e alla verosimiglianza storica del racconto.

Se tanto mi dà tanto, quando gireranno i nuovi Promessi sposi, faranno di don Rodrigo il capo della piovra e di Lucia una cubista di Cervia. 

Il vecchio che diceva il rosario

 La Voce di Romagna, 6 luglio 2012
 

«Un ragazzo entrò nella carrozza del treno alla fermata di una piccola città universitaria della Francia meridionale: era circa il 1890. Il ragazzo, fresco di laurea, si sedette vicino a un anziano signore che sembrava sonnecchiare. Quando il treno riprese la sua corsa sobbalzando, dalle mani del vecchio cadde un rosario. Il ragazzo si affrettò a raccoglierlo e ad allungarlo al signore, senza risparmiarsi un’osservazione: “Suppongo che lei stesse pregando, signore...”.
“Hai ragione. Stavo pregando” – rispose il vecchio.  
“Sono stupito che ai nostri tempi – fece il ragazzo – qualcuno sia ancora così ignorante e superstizioso. I nostri professori all’università non credono in queste cose”. E il ragazzo si impegnò a “illuminare” il suo anziano compagno di viaggio. “Sì – proseguì il giovane – oggigiorno la gente istruita non crede più in simili sciocchezze”.
“Davvero!?” – replicò l’anziano, piuttosto sorpreso.
“Sì, signore. E, se vuole posso inviarle alcuni libri illuminanti al riguardo”.
“Mi farebbe molto piacere” – fece in tempo a dire l’anziano mentre si accingeva a scendere dal treno. “Mi puoi mandare i libri a questo indirizzo”. Porse al giovane un biglietto da visita e questi lesse l’indirizzo:
Louis Pasteur, Direttore dell’Istituto di Ricerca “Pasteur”, Parigi».
Il gustoso aneddoto cade nell’anniversario della prima iniezione antirabbica a un ragazzo morso da un cane infetto eseguita appunto dal grande scienziato Louis Pasteur, il 6 luglio 1885. “Gustoso” – perché smonta efficacemente uno dei miti più diffusi dall’Illuminismo in qua, e cioè che la fede cristiana è cosa per creduloni, la preghiera è una superstizione, il rosario, poi, roba per vecchi sonnacchiosi. Sì, peccato che quel signore anziano – che forse meditava, più che sonnecchiare – era uno dei più grandi scienziati del suo tempo, il tempo del positivismo e dello scientismo trionfante. Uno scienziato la cui grandezza il mondo fu costretto a riconoscere mentre questi era ancora in vita, e in piena attività, fondando un Istituto per la lotta alla rabbia e affidando a lui la direzione. Uno scienziato che passò la vita a risolvere i maggiori problemi chimici, medici, biomolecolari del suo tempo: 1857 – studi sulla fermentazione; 1862 – dimostrazione dell’inesistenza della generazione spontanea; 1863 – studi sulle malattie del vino; 1865 – studi risolutivi sulle malattie dei bachi da seta che avevano invaso tutti gli allevamenti; 1871 – studi sulle malattie della birra, e invenzione del processo di pastorizzazione (appunto); 1880 – studi sul colera dei polli scoperta del relativo vaccino; 1881 – studi sul carbonchio di bovini e ovini e scoperta del vaccino; 1885 – studi sulla rabbia e scoperta del relativo vaccino. Ah, c’è da aggiungere che Pasteur è all’origine dell’odierna microbiologia e immunologia nonché dell’applicazione delle scoperte microbiologiche alla medicina e alla chirurgia. A lui si deve lo studio, la prevenzione (asepsi) e l’immunizzazione per la profilassi delle malattie infettive. Insomma, se siamo vivi, se siamo adulti e vaccinati, se abbiamo sconfitto il carbonchio ecc. lo dobbiamo in gran parte al signore che, in treno, recandosi al lavoro, diceva il rosario. Domanda: è da vecchi rimbambiti il rosario? Oppure è la preghiera propria degli intellettuali, preghiera di chi può facilmente cadere nell’orgoglio della “scienza che gonfia” e che pertanto è bene che ripeta, meditando “Ave o Maria, piena di grazie...”, “Santa Maria, Madre di Dio”...? E perché poi: un intellettuale non può forse applicare la sua scienza e la sua capacità di riflessione al mistero della maternità di Maria, all’incarnazione, alla Theotokos, alla pensiero della propria morte tra le braccia della Madonna?
Oh, sì, Odifreddi troverà da ridire: scienza e fede si oppongono irrimediabilmente. Sì, certo. Anche se è un po’ tardi, ormai, Odifreddi può sempre mandare anche i suoi libri a: Institut Pasteur 25 rue du Docteur Roux 75015 PARIS, FRANCE. Li metteranno sotto la statua del vecchio che diceva il rosario. Chissà, forse pregava anche per i suoi colleghi presenti e futuri, malati di ateismo rabbioso (morbo per cui, però, non esiste vaccino). 

giovedì 27 dicembre 2012

A t’ voj ben



La Voce di Romagna, 29 settembre 2006



Qualche tempo fa scrivevo dello “spagogn”, il tipo di romagnolo rustico, scontroso, quello che rifiuta i complimenti e gira l’angolo non appena il discorso diventa troppo sentimentale e sdolcinato. Ora trovo una nuova conferma di questo tratto romagnolo in un libro di “modi di dire” e indovinelli in dialetto raccolti da Libero Ercolani, laddove tratta il vocabolo “moglie”. Scrive Ercolani:

“ ‘Su mê’: Sua (o loro) madre. La moglie. Il vecchio romagnolo difficilmente diceva: ‘mia moglie’; altrettanto difficilmente la indicava con il nome di battesimo. Ricorreva all’espressione ‘su mê’, indicandola indirettamente come la madre dei propri figli.

‘Cla dòna ch’a j ho a ca’: Quella donna che ho a casa. Un altro giro di parole con il quale il vecchio romagnolo evitava di dire: ‘mia moglie’. Così come per non dire ‘ti amo’ (‘amare’ non esiste nel dialetto romagnolo) diceva ‘a t’ voj ben’, ti voglio bene. Forse perché ‘ti amo’ per il suo carattere era troppo raffinato”.

Fin qui Ercolani, il quale, conseguentemente, nel suo “Nuovo Vocabolario Italiano Romagnolo” non riporta il verbo “amare”, traduce “amante” con “amig” e “amoreggiare” con “smurusêr”.

Fa riflettere questa nostra natura scontrosa di romagnoli, questo rivoltare la lingua per evitare di dire “ti amo”, quasi fosse l’ammissione di un’imperdonabile debolezza, una resa disonorevole, per giunta a beneficio di una donna. Si sente qui l’eco dello spirito romagnolo indipendente (e un po’ misogino) che rifiuta di mostrarsi incatenato, aggiogato. Poi – è facile immaginare – una volta chiusa la porta e lasciata la curiosità dei vicini fuori di casa, le presunte indipendenze venivano probabilmente chiarite, le gerarchie ristabilite. Sia chiaro: non senza pagar pegno, non senza lotta. Oggi diremmo che il matrimonio romagnolo doveva essere “challenging”, per dire che era anche una sfida, una contesa d’amore, che non era il magico incastro raccontato dalla letteratura romantica. No; come tutte le relazioni autentiche richiedeva un paziente lavoro di lima e di pialla per smussare gli spigoli e addolcire i caratteri. Il matrimonio non era una telenovela e “ti amo” non era una frase banale, che si può dire a chiunque, più volte.

In compenso, in questo “a t’ voj ben” era implicito l’amore come frutto della volontà, come il “volere il bene” dell’altro. In un mondo dove i genitori hanno rinunciato a indicare ai figli qual è il loro bene e i politici non si vergognano di nulla e tutto giustificano perché “non è penalmente perseguibile”; in una società in cui la massima fondativa della morale “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (Mi è amico Platone, ma mi è più amica la verità) viene regolarmente rovesciata nel suo opposto (“Prima gli amici indipendentemente dal loro valore”) e in cui la volontà sembra che non abbia a che fare con il matrimonio (“Cosa ci potevo fare? Mi sono innamorato”), il vecchio romagnolo che a fatica tira fuori un onesto “ti voglio bene” ci sta davvero simpatico.

Pensa che il bene esista, ha di mira il bene, il bene suo e della moglie. È riservato, non si svende, ha una sua interiorità, non è a disposizione della prima sventola che passa. E un giorno, ormai da vecchio, vincendo infine il proprio pudore, si avvicinerà a sua moglie, e quando ormai lei non ci conterà più, le sussurrerà all’orecchio: “Ti amo”. E lei, con il sorriso di chi la sa lunga gli risponderà: “Al saveva nêca prêma” (Lo sapevo già).

domenica 23 dicembre 2012

La bellissima follia dell'adorazione perpetua

I preti chiudono le chiese, i laici le riaprono


La Voce di Romagna, 14 settembre 2012





Nel centro di Urbino, a cento metri dalla Casa di Raffaello, c'è una chiesa piccola, la cui facciata si confonde con quelle dei palazzi contigui. È la Chiesa di Santo Spirito. Fino a non molto tempo fa c'era una messa feriale, a ora tarda, poi, morto l'ennesimo prete ottuagenario non rimpiazzato a causa del calo delle vocazioni, la messa è stata abolita. Dopo qualche anno, la svolta. Non so per iniziativa di chi, sta di fatto che la Chiesa di Santo Spirito si è aperta all'adorazione perpetua.

Sì, avete letto bene: adorazione perpetua. Cioè la cosa più folle e più santa che si può immaginare. Più folle - nel senso che, per chi non crede, per chi vede le cose solo con gli occhi della carne, si tratta di passare del tempo - ore - a guardare un pezzo di pane. Più santa - nel senso che per chi vede le cose non solo con gli occhi di carne ma anche con gli occhi della fede, si tratta di contemplare adoranti Dio stesso sotto le apparenze di un pezzo di pane. Dio stesso, il creatore di questo nostro mondo, colui che lo regge nell'esistenza, l'immenso, il perfetto, lo stesso che ci ha salvati uno ad uno con la sua morte e resurrezione. Dio.

Adorazione - significa contemplare stupiti il fatto meraviglioso di questo Dio che non è rimasto in cielo, ma si è fatto uno di noi, ha assunto una natura umana. Di più: significa contemplare questo atto di amore stupefacente per cui Dio, l'infinito, si è reso vicino all'uomo di tutti i tempi prendendo le fattezze non di un uomo, ma addirittura di una cosa, un pezzo di pane.

E l'aggettivo "perpetua" sta a indicare che notte e giorno, H24 - come si dice oggi - davanti a quel Dio in forma di ostia, c'è qualcuno. Minima organizzazione, tabellone con post-it, e soprattutto tanti volontari disposti a passare almeno un'ora a parlare con Dio, a guardare, contemplare, pregare Dio. Anche alle 11 di sera, anche alle 4 di notte: sempre. 
Follia, follia! Per qual motivo svegliarsi alle 3 e 1/2, nel pieno della notte, lavarsi gli occhi, vestirsi e uscire di casa per andare un'ora a Santo Spirito? Per fare compagnia a Colui che è morto per me, anzitutto. Per riconoscenza, per parlare con Lui da solo a solo, per chiedergli cose, confidargli gioie e dolori, raccontargli delle nostre piccole lotte interiori, delle sconfitte e delle vittorie sul nostro pessimo carattere, per affidargli la figlia di quell'amica che ha qualche problema, il marito di quell'altra che la vuole lasciare, le mille vicende positive e negative della nostra vita misera e bella... E per contemplare la vita che ci aspetta nel seno di Dio, per cercare di strappare a quel Dio fatto pezzo di pane qualche segreto incomunicabile.

Do un'occhiata al tabellone di questi che si autodefiniscono "adoratori turnisti". Non c'è un buco libero, non c'è un'ora disponibile. Anzi, su diverse ore ci sono più nomi. E sono nomi di laici, di persone comuni, che la mattina si devono alzare per andare a lavorare. Vedo solo il nome di un prete - tale d. Michele - e di una suora, ma su 168 ore settimanali si saranno accaparrati 3 o 4 ore in tutto; il resto è appannaggio di gente come me e te. Riconosco addirittura il nome di qualche collega universitario (Urbino è piccola, si sa...).

La cosa è più che logica. Una volta ri-scoperta con il Concilio Vaticano II la chiamata universale alla santità di ogni cristiano, è ovvio che si smonti da sé l'artificiale e ipocrita divisione tra gli specialisti del sacro – preti e suore – e un popolo di fedeli, per così dire, di serie B. No, la Chiesa di Santo Spirito in Urbino, e non è la sola, è lì a testimoniare che il compito che un tempo veniva riservato in esclusiva ai tanti "Ordini religiosi eucaristici" (in particolar modo femminili), ora se lo prendono sulle spalle anche i laici, soprattutto i laici. I quali, se vogliono vivere una vita cristiana degna di questo nome, lì, a quella Eucaristia, vanno ad attingere forza e chiarezza. Anche alle 4 di notte.

Mussolini, Mao, Putin, Grillo: populisti a mollo



La Voce di Romagna, 12 ottobre 2012

L’agenzia internazionale Reuter non ha dubbi nel commentare la notizia: «Il politico populista Beppe Grillo, leader del secondo partito più ampio d’Italia, ha lanciato la campagna elettorale in Sicilia in modo pittoresco, attraversando a nuoto l’infido Stretto di Messina che separa l'isola dall’Italia continentale».
Populista: cioè, stando al Dizionario Treccani, «rappresentante di quell’ atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi». Il riferimento storico è, ovviamente, al populismo russo, movimento di fine Ottocento che vide tanti intellettuali di sinistra intraprendere una letterale «andata al popolo»: abbandonata la comoda vita di città, si traferirono in campagna, con l’orgoglio tipicamente intellettualoide di spiegare ai contadini come avrebbero dovuto opporsi al regime zarista. Finì con gli intellettuali cacciati a bastonate dai contadini che non volevano saperne dei metodi violenti che i populisti propugnavano. Questi non si dettero per vinti e moltiplicarono le loro iniziative violente, culminate nell’assassinio di tanti ministri (ovviamente, i più intelligenti e attivi) e dell’imperatore Alessandro II (proprio quello che aveva abolito la servitù della gleba nel 1861).
A ben vedere dunque, l’essenza storica del «populista» consiste nel cercare di sintonizzarsi con un «popolo» spesso mitico e irreale, lisciarlo demagogicamente e proporre qualcosa di estremamente generico legato alla propria persona carismatica (è la versione peronista del populismo), se mai sconfinando nella violenza antisistema.
Essenziale al populista è dunque l’affermazione del proprio potere carismatico. Ecco allora spiegati gli atteggiamenti sempre sopra le righe del leader populista, che tanto più è costretto a urlare quanto meno è portatore di contenuti.
A quanto pare, la sfida con le forze della natura ben si presta a simboleggiare il potere carismatico del leader populista.
Una delle foto Alinari più note di Mussolini mostra il duce nel 1933 mentre nuota a Riccione, negli stessi anni in cui in un discorso tenuto a Napoli fra acclamazioni deliranti, aveva fatto sua l’affermazione chiave del populismo: «Andare verso il popolo, realizzare concretamente la nostra civiltà economica, che è lontana dalle aberrazioni monopolistiche del bolscevismo, ma anche dalle insufficienze dell'economia liberale: se ci fossero dei diaframmi che volessero interrompere questa comunione diretta del regime col popolo noi, nel supremo interesse della nazione, li spezzeremo».
Nel 1966 Mao pensò bene di affrontare le acque inquinate dello Yangtze per lanciare la Rivoluzione culturale scavalcando il potere della burocrazia del partito e appellandosi populisticamente alle giovani Guardie Rosse. 
E Putin? Che dire di Putin, il più populista dei leader politici russi? Be’, Putin ha un’intera serie di foto che lo ritraggono in atteggiamenti macho, atteggiamenti con cui intende confermarsi l’ideale di ogni Russo (e Russa): eccolo allora ripreso mentre fa judo o caccia animali feroci, mentre spara, pesca o fa snowboard, ma soprattutto, mentre nuota. Se Brezhnev – rappresentante del potere burocratico, non carismatico – poteva tranquillamente starnazzare in piscina con un patetico salvagente, il populista Putin non può che nuotare a delfino in un fiume siberiano.
Mussolini, Mao, Putin: la compagnia populista di Grillo.

giovedì 6 dicembre 2012

Tra Gambi e gambe: l’evangelica “mescolanza degli stili”

La Voce di Romagna, 27 aprile 2007 





L’ottimo amico Paolo Gambi, collaboratore tra i più apprezzati della Voce di Romagna, mi invita a una trasmissione che conduce per una tv locale di Faenza. Ci rincorriamo per alcuni mesi, poi, finalmente, troviamo il momento conveniente per entrambi. Quando mi presento nel capannone che funge da sala di registrazione, incrocio Bruno Sacchini che sta uscendo accompagnato da Gambi: la più alta concentrazione di “Vociani” al di fuori della redazione del giornale!
La trasmissione di Gambi si chiama “A cup of tea with…” e questa volta l’ospite invitato a bere la tazza di tè sono io. Il tè, naturalmente, è un pretesto per fare quattro chiacchiere (anche perché la tazza è la stessa che Sacchini ha lasciato sul tavolo e il tè è gelido…). Argomento – la letteratura russa, materia che insegno all’Università di Urbino.
Come nelle migliori tradizioni della televisione italiana, Gambi è accompagnato da una valletta: è una studentessa di ragioneria di Faenza, si chiama Barbara,  ma soprattutto ha una minigonna di quelle che non cominciano mai e finiscono subito e due gambe “ad altezza uomo”. Mi concentro sulla letteratura russa e cominciamo la registrazione. Tutto va come previsto: Gambi domanda, io rispondo, la valletta, seduta non casualmente su un alto trespolo, interviene ogni tanto leggendo frasi dai classici russi con spiccato accento faentino. Finisce la trasmissione e, mentre Gambi e io ci attardiamo a fare le ultime chiacchiere, Barbara “Gambe” si cambia la minigonna, che si rivela così un apposito abito di scena.
A quanto mi dicono, la trasmissione va in onda qualche tempo dopo, con tanto di replica. Non riesco a vederla, ma diversi conoscenti mi fermano per il classico “ti ho visto, l’altra sera, in tv”. Mi spiegano che, mentre io e Gambi volteggiavamo da veri intellettuali tra le rarefatte altezze della letteratura, il regista della trasmissione faceva lunghe riprese delle gambe dell’aspirante ragioniera, cominciando dalle caviglie e salendo via via fino alle cosce.
Meraviglioso! Straordinario! Già, perché la letteratura russa dell’Ottocento e soprattutto Dostoevskij su cui io e Gambi ci siamo soffermati a lungo, trattano proprio di questa straordinaria mescolanza di “alto” e “basso”, di nobili ideali e di passione carnale in quella contraddittoria creatura che è l’uomo. Spiega Erich Auerbach, forse il maggiore critico letterario del secolo XX, che la letteratura dell’Ottocento, soprattutto quella russa, rinnova la straordinaria invenzione che il realismo cristiano ha attuato con la scrittura dei Vangeli: non era infatti previsto dalle regole della retorica antica che una narrazione presentasse un Dio fatto uomo intento agli umili lavori dell’artigiano, che una prostituta rivolgesse la parola a Dio stesso, che dei rozzi pescatori ignoranti ragionassero in concilio della salvezza degli uomini.
Tutto ciò lo ritroviamo in Dostoevskij: i fratelli Karamazov che discutono di “questioni maledette” nella taverna fumosa e puzzolente, la prostituta Sonja Marmeladova che legge all’assassino Raskol’nikov la pagina evangelica della resurrezione di Lazzaro (“Delitto e castigo”), Dio stesso che compare in visione ad Aljosha Karamazov e lo invita al banchetto della vita eterna.

Non più “separazione degli stili” come nella letteratura classica, dove un dio poteva comparire solo nella tragedia e una prostituta o un pescatore solo nella commedia; non più differenziazione degli argomenti e del linguaggio a seconda dei generi letterari. I Vangeli rompono questa regola retorica e introducono quella che Auerbach chiama la “mescolanza degli stili”: è il riflesso della nostra vita, dove le altezze ideali si mescolano con le passioni più carnali, dove le questioni divine si coniugano con i discorsi d’affari, dove le raffinatezze della critica letteraria coesistono con le cosce della ragioniera.

Dissociarsi dal proprio passato


La Voce di Romagna, 24 agosto 2012 


Approfitto dell’estate per recuperare qualcosa sulla pila di libri che staziona stabilmente sulla mia scrivania. E arriva il turno di un libro bellissimo, La piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo (Ares, 2005). Il sottotitolo chiarisce già un po’ di cosa si tratta (Anni di piombo, carcere, ricerca d’identità), ma quel che rimane difficile è definire l’autore, Arrigo Cavallina. Infatti, sarebbe facile dire che è uno dei protagonisti degli “anni di piombo”, passato per la “lotta armata” da “Potere Operaio” e “Autonomia Operaia” sino ai PAC (“Proletari Armati per il Comunismo”), che ha partecipato a diverse azioni eversive, ad attentati anche gravissimi, che è stato catturato e condannato, che ha scontato 15 anni in diverse galere italiane... Ma come dice lo stesso Cavallina in questo lungo diario sincero «quando mi capita oggi di parlare ai ragazzi delle vicende degli anni ’70, la Guerra del Vietnam, la Rivoluzione cubana... il coinvolgimento di tanti giovani in una ribellione dai molteplici volti, il Sessantotto, il maggio francese, ... via via fino alle Brigate rosse ... sento che tutto questo che ha segnato la mia vita come quella di molti, che ha lasciato ferite profondissime non rimarginate, è percepito oggi come lontano e indifferente quanto le guerre puniche, e forse perfino meno conosciuto perché non ancora argomento scolastico obbligatorio».
Dunque, qual è l’interesse per la vicenda di Cavallina? L’interesse è probabilmente nel fatto che questo ragazzo veronese dopo essersi infatuato come tanti dell’ideologia marxista e della “violenza proletaria”, in carcere matura un distacco sempre più radicale da quella posizione ideologica. Incontra la vita, si scontra con la vita reale, vede riaffacciarsi alla sua memoria e alla sua coscienza i volti e le fattezze fisiche delle persone che ha ferito, dei presunti “nemici”. Capisce che quello che ha fatto per anni non è stato altro che perpetuare una logica di violenza, invece di opporvisi, si rende conto di quanto la lotta armata fosse prodotto e matrice di una concezione dualistica – buoni o cattivi – che non lascia spazio al cambiamento...
E si dissocia dal proprio passato. Cavallina diventa così uno dei promotori del movimento della “dissociazione”, di una dissociazione interiore e personale dal proprio “io” di un tempo. Piano piano, evitando le insidie di chi su quella dissociazione vuole speculare ideologicamente e politicamente – Toni Negri e Pannella, tra gli altri – Cavallina si apre ad una vita nuova. Riceve un nuovo sguardo sulla sua vita da parte di cristiani che testimoniano cos’è il perdòno, il perdòno di Dio, quello che realmente cancella i peccati e fa di noi delle creature nuove. E finalmente riesce lui stesso a guardare alla sua vita come a qualcosa che può acquisire un valore, anzi che ce l’ha già, perché Dio ci ama. Poi è la storia della sua conversione, del suo impegno in una espiazione anche umana, in attività dentro il carcere che possano rappresentare una redenzione fattiva e non il cieco, sordo e muto perdersi di una vita destinata al non senso, alla punizione come assenza di ogni significato.
Ma è la radice di quel cambiamento – il pentimento e il perdòno – che mi colpisce e che, se pure non è argomento scolastico obbligatorio, ci riguarda tutti. Tutti noi che rischiamo ora e sempre di dividere il mondo in buoni e cattivi, in “quelli che stanno dalla nostra parte” e i “nemici”, in noi che, per i “cattivi” e i nemici” non riusciamo neanche a intravedere vie di uscita, ma soltanto detenzioni punitive, la retribuzione di una giustizia cieca al riscatto.
E invece no. Grazie al pentimento e al perdòno davvero le nostre azioni del passato possono ricevere un nuovo significato. Lo spiega bene Max Scheler nel suo L'eterno nell'uomo: contrariamente a quanto accade nel flusso dei cambiamenti della natura inanimata – il cui tempo è un continuo uniforme, ad una dimensione, che va verso una direzione determinata – nell’esperienza di ciascun momento della nostra esistenza temporale sono presenti la totalità della nostra vita e della nostra persona. Ne consegue che noi non disponiamo solo del nostro futuro e del nostro presente, ma, in un certo senso, anche del nostro passato. Certo, non possiamo modificare i fatti avvenuti, ma possiamo modificarne il senso e il valore. Ogni cosa ha un senso e un valore all’interno del senso globale della nostra vita ed è precisamente questo senso e questo valore che noi possiamo modificare ex-post secondo il nuovo senso che la nostra vita ha ricevuto.
Per questo, aggiunge Scheler, è possibile che uno si penta fattivamente del male compiuto. Il pentimento non è un’illusione, non è qualcosa di posticcio, ma è un senso e un valore nuovo che le nostre azioni compiute nel passato ricevono.
Se siamo quello che siamo, testimonia Cavallina, è perché Qualcuno ci ha perdonati, si è assunto il nostro male, il nostro peccato. E perché qualche suo discepolo ci ha reso presente un nuovo sguardo pietoso su noi stessi. Come ho già scritto, in occasione del Perdono di Assisi, tutti noi abbiamo bisogno di perdòno. 

I cinesi che non perdono la faccia



La Voce di Romagna, 17 febbraio 2006


La caduta da brividi di Dan Zhang, nella gara di pattinaggio artistico delle Olimpiadi invernali, ma, più ancora, l’incredibile recupero che ha portato l’atleta cinese alla medaglia d’argento, meritano un commento. La gara l’abbiamo vista tutti, e tutti, anche chi di noi tifava per la coppia russa poi risultata vincitrice, abbiamo condiviso delusione e sofferenza e poi infine gioia liberatrice per la vittoria morale dei due pattinatori cinesi sulla sfortuna, su quello che era sembrato un ostacolo insormontabile. Già, insormontabile per noi Italiani… Insormontabile per il commentatore della RAI che, dopo quel salto altissimo conclusosi malamente sul ghiaccio del Palavela di Torino, ha prematuramente stilato il podio della gara depennando la coppia cinese Zhang e Zhang. E invece…

E invece la cultura cinese, come pure quella giapponese, dà grandissimo valore alla considerazione sociale, ciò che si riflette nel concetto di “salvare la faccia”. Regole non scritte dettano i comportamenti degli individui all’interno della società allo scopo di combinare il rispetto per se stessi con il prestigio degli altri. Così, durante una competizione anche commerciale, il tradizionale sistema di valori cinese impone che si conceda allo sconfitto qualche premio di consolazione, che non lo si umili. E quando, comunque, le circostanze portano alla sconfitta c’è un’ultima difesa, un ultimo modo di non “perdere la faccia”: assumere un’espressione impassibile come se nulla fosse successo, evitare di perdere il controllo di se stessi, di mostrare pubblicamente la propria frustrazione, la propria rabbia.
Laddove un Italiano si sarebbe messo a piangere e a imprecare contro il destino cinico e baro, con il conforto e la comprensione di mamma, papà e della nazione intera; dove un americano avrebbe intentato causa ai manutentori della pista di ghiaccio, agli architetti del Palazzetto e agli organizzatori delle Olimpiadi, la mite e determinata Dan Zhang, nel breve scorrere di due minuti, si è ripresa, ha mascherato dolore, delusione, un’intera gamma di sentimenti e ha ripreso la sua danza commovente sul ghiaccio lucido. Una piroetta, un’altra ancora, facendo leva proprio sul ginocchio sinistro che aveva sbattuto violentemente contro il ghiaccio e infine il giusto premio: medaglia d’argento!

Che meraviglia, e che lezione! Autocontrollo, dominio di sé, senza inutili polemiche con il partner, senza giocare allo scaricabarile, senza accampare scuse, senza cercare giustificazioni. Confrontiamo questa lezione con quanto ci passa il convento televisivo, con quella Tv spazzatura in cui l’esplosione incontrollata dell’ira e l’esibizione della mancanza di autocontrollo sono ormai norma settimanale. Confrontiamola con le parolacce e le offese irripetibili anche tra compagni della stessa compagine, parolacce e offese che accomunano campi da calcio, spogliatoi, Parlamento, per non parlare dei Consigli comunali e di Circoscrizione.  
Confrontiamola con la spettacola-rizzazione della vita e dei suoi aspetti più abietti nei reality show, dove l’offesa e la scurrilità sono studiati e voluti per aumentare lo share, dove attori-spettatori mettono in piazza le proprie brutture. Confrontiamo e scegliamo: io sto dalla parte della pattinatrice cinese, dalla parte della tradizionale virtù della “mansuetudine”, che non è mancanza di energia, ma forza potente per vincere se stessi, per possedere il proprio “io” contro la volubilità, la mancanza di carattere, l’incostanza. 
Così si vince. Così si diventa persone più vere, andando contro e non assecondando le proprie miserie, le proprie debolezze. Certo, anche questo autocontrollo può, in definitiva, essere egoistico, diventare alimento dell’amor proprio, come ammoniscono i maestri cristiani di vita interiore; e dunque va purificato, elevato, orientato all’apertura verso gli altri, all’amore degli altri. Però, quanto meno, la strada è quella giusta.

“Il potere delle tette”



La Voce di Romagna, 24 novembre 2006

Anzitutto, mi scuso. Mi scuso perché un titolo così proprio non si dovrebbe fare e, inoltre, non è nel mio stile. Mi scuso con le lettrici della Voce e spero che non mi vengano date patenti di maschilismo. Semplicemente, la definizione non è mia e per questo ho chiesto e ottenuto dal Direttore di mettere il titolo – peraltro irrinunciabile – tra virgolette.
La definizione, infatti, è di un anonimo ragazzo con cui ho fatto il viaggio in corriera da Urbino a Pesaro qualche tempo fa. Sapete come capita in corriera: uno si siede volendo sonnecchiare e dietro vi si piazzano due che parlano a voce alta, e le loro vicende diventano immancabilmente le vostre. Se anche uno non vuole ascoltare, non può non sentire. È così che ho sentito la storia del “potere delle tette”. Ve la riporto.
I miei due compagni di viaggio erano un ragazzo e una ragazza, entrambi studenti universitari. Come tanti altri studenti, almeno quelli iscritti all’Università di Urbino, anche questi arrotondano i soldi dei genitori con qualche lavoretto. È vero che questo fa sì che gli appelli d’esame soprattutto di settembre, quelli dopo la “stagione”, siano poco frequentati e che gli anni d’iscrizione si allunghino inevitabilmente, ma tant’è: anche gli anni di vita studentesca si allungano e questo può avere i suoi lati positivi…
Insomma, i due parlano e scoprono che fanno lo stesso lavoro: il barman (e la barwoman, direbbe qualche anglofono politically correct). Ancora un paio di frasi e il ragazzo assume un tono risentito, quasi di sfida. Dal momento che lavorano a giornata e solo le sere che i bar ne hanno necessità, lui si lamenta del fatto che subisce la “concorrenza sleale” della ragazze. La chiama proprio così: concorrenza sleale. Dice che se il titolare di un bar ha la possibilità di scegliere, le ragazze vengono sempre preferite ai ragazzi. “Per questo i ragazzi devono diventare molto professionali, se vogliono lavorare in questo campo. Devono diventare dei veri professionisti. Sai anche tu com’è” – conclude enigmaticamente. A differenza della ragazza, io, per la verità, non so com’è, ma questo è un altro handicap della corriera: una volta che senti un discorso interessante, non è che puoi intrometterti disinvoltamente e chiedere spiegazioni (“No, scusi. Io non ho capito. Non è che potrebbe spiegarmi…”).
Il dialogo prosegue serrato. Parlano della vita dura del barman, concordano sull’impossibilità di fare questo lavoro per molti anni, soprattutto se si vuole finire l’università. Poi passano a confrontare le retribuzioni e le trovano analoghe. “Bene – penso tra me. – Almeno in questo campo non c’è discriminazione”. Ma il ragazzo incalza. “E le mance?”. Già, non ci avevo pensato: ci sono anche le mance. “Dai - insiste lui. – Dimmi quanto prendi di mancia in una sera?”. La ragazza spara una cifra sostanziosa e io mi perdo a confrontarla con il mio stipendio diviso per i giorni del mese. Quando riemergo dalla deprimente esperienza del confronto, scopro che lei ha fatto una specie di classifica. “Dunque – dice lei – ho notato che le mance dipendono da come sono vestita. Ma non è come tu pensi!”. Ah, per fortuna, non è come pensa lui. Sicuramente è una brava ragazza e una studentessa modello. “Ah, sì. E com’è?” – fa lui.
“Vedi – fa lei -, è sbagliato pensare che più ti svesti e più ti danno di mancia. Non c’è una proporzione così diretta. Ad esempio, io ho notato che l’abbigliamento con cui tiro su più mance non sono le camicie scollate: è una maglia attillata che lascia scoperte le spalle. Quando ho bisogno di soldi, mi metto quella maglia e torno a casa con borsellino gonfio”.
“Lo so – dice lui. – È quello che io chiamo ‘il potere delle tette’. Non solo vi danno il lavoro anche se siete meno professionali di noi, ma guadagnate anche di più. Non lo sopporto questo potere delle tette”. La ragazza non si scompone. La sua replica, però, è tagliente. “E a chi vuoi darne la colpa? Sono gli uomini che guardano e che sborsano”.
Lui si prende l’ultima parola, mentre già ci prepariamo a scendere: “Dimmi solo una cosa. Tra te e una prostituta che si vende per soldi che differenza c’è? Ovvio che c’è una differenza, lo vedo anch’io. Ma credo che sia una differenza solo ‘di grado’, non una differenza qualitativa”.
Scendo con un brivido, anche se è una giornata tiepida.