Ogni
tanto, non tutti gli anni, vado a vedere una partita allo stadio. Ci vado con i
miei figli – debole scusa – e portandomi dietro le (sacrosante) lamentele di
mia moglie sull’inevitabile calo di efficienza scolastica dei ragazzi il giorno
successivo.

Come
dire: vado a vedere il Milan (ah, sì, dimenticavo: tifo Milan, come Berlusconi
e Bertinotti), cosciente che è la squadra del Presidente del Consiglio, e che
questi ha costruito abilmente un mito intorno agli undici pallonari con la
maglia a strisce rossonere; e consapevole, pure, che staccandomi dalla vita
reale, prendendo la macchina con i figli vestiti da Boateng o da Pato,
parcheggiando vicino allo stadio e camminando fianco a fianco con altre 80.000
mila persone vestite da Boateng o da Pato, non sto gestendo autonomamente il
mio tempo libero, come dovrebbe essere, ma lascio che il mio tempo sia inserito
in un grande e anonimo rito tribale.
Lo
so. So tutto questo. Ma ci vado lo stesso.
Ci
vado mantenendo un piede fuori dalla calca, da intellettuale diffidente che non
si lascia trascinare dal «ventre» dello stadio. Sì, perché quell’unità
indistinta che è la massa che affolla lo stadio ha i suoi umori, le sue
espressioni inquietanti, quasi fosse un gigantesco Io collettivo: l’ “OH”
sospirato all’unisono da decine di migliaia di persone per un’occasione
svanita, gli inesorabili fischi alla comparsa della quadra avversaria (fischi
che coprono allegramente il motto della Uefa, “Rispetto e fair play”…). A ciò
si aggiungono da un po’ di tempo le azioni provocate da chi ha in mano il
microfono dello stadio. Nell’annunciare i giocatori del Milan, lo speaker
occulto pronuncia il nome e attende che lo “Stadio” urli il relativo cognome.
Se un sociologo cercava il simbolo del progetto totalitario del calcio, eccolo
servito. Quando
poi si tratta, come il mercoledì sera, di una partita di Champions League, allora
è manifesto che «il progetto tendenzialmente totalitario» è in realtà un
rito secolarizzato, una nuova forma di sacralità. A parte le maglie-reliquie, e
il divismo (da divo = dio) dei giocatori, non è un caso che l’inno della
Champions League sia stato creato nel 1992 dall’inglese Tony Britten adattando
l’Inno dell’unzione del sovrano inglese composto da Haendel nel 1700.
Dell’inno
di Haendel tratto dalla Bibbia di Re Giacomo, quello della Champions League ha
mantenuto e forse addirittura accentuato la solennità espressa dall’unisono di
soprani, contralti e tenori con accompagnamento orchestrale. E se l’inno
originale si riferisce all’atto dell’unzione in cui si rivelano le
caratteristiche sacerdotali
del sovrano, questo celebra in francese, inglese e tedesco «il grande evento», «le
squadre migliori», «i maestri», «the champions».
Un
tormentoso dubbio lo inquieta: chi avrà abbracciato chi?