venerdì 4 gennaio 2013

The Champions


 La Voce di Romagna, 30 settembre 2011




Ogni tanto, non tutti gli anni, vado a vedere una partita allo stadio. Ci vado con i miei figli – debole scusa – e portandomi dietro le (sacrosante) lamentele di mia moglie sull’inevitabile calo di efficienza scolastica dei ragazzi il giorno successivo.

E ci vado volentieri. Non che partecipi al rito che si svolge allo stadio in modo ingenuo. Sono infatti perfettamente consapevole del rischio individuato dai sociologi, primo fra tutti il grande prof. Morra, che anche il «tempo libero può venire inserito in un grande progetto, tendenzialmente totalitario, che possiamo definire la ‘pianificazione consumistica del tempo libero’ ».

Come dire: vado a vedere il Milan (ah, sì, dimenticavo: tifo Milan, come Berlusconi e Bertinotti), cosciente che è la squadra del Presidente del Consiglio, e che questi ha costruito abilmente un mito intorno agli undici pallonari con la maglia a strisce rossonere; e consapevole, pure, che staccandomi dalla vita reale, prendendo la macchina con i figli vestiti da Boateng o da Pato, parcheggiando vicino allo stadio e camminando fianco a fianco con altre 80.000 mila persone vestite da Boateng o da Pato, non sto gestendo autonomamente il mio tempo libero, come dovrebbe essere, ma lascio che il mio tempo sia inserito in un grande e anonimo rito tribale.

Lo so. So tutto questo. Ma ci vado lo stesso.

Ci vado mantenendo un piede fuori dalla calca, da intellettuale diffidente che non si lascia trascinare dal «ventre» dello stadio. Sì, perché quell’unità indistinta che è la massa che affolla lo stadio ha i suoi umori, le sue espressioni inquietanti, quasi fosse un gigantesco Io collettivo: l’ “OH” sospirato all’unisono da decine di migliaia di persone per un’occasione svanita, gli inesorabili fischi alla comparsa della quadra avversaria (fischi che coprono allegramente il motto della Uefa, “Rispetto e fair play”…). A ciò si aggiungono da un po’ di tempo le azioni provocate da chi ha in mano il microfono dello stadio. Nell’annunciare i giocatori del Milan, lo speaker occulto pronuncia il nome e attende che lo “Stadio” urli il relativo cognome. Se un sociologo cercava il simbolo del progetto totalitario del calcio, eccolo servito. Quando poi si tratta, come il mercoledì sera, di una partita di Champions League, allora è manifesto che «il progetto tendenzialmente totalitario» è in realtà un rito secolarizzato, una nuova forma di sacralità. A parte le maglie-reliquie, e il divismo (da divo = dio) dei giocatori, non è un caso che l’inno della Champions League sia stato creato nel 1992 dall’inglese Tony Britten adattando l’Inno dell’unzione del sovrano inglese composto da Haendel nel 1700.
Dell’inno di Haendel tratto dalla Bibbia di Re Giacomo, quello della Champions League ha mantenuto e forse addirittura accentuato la solennità espressa dall’unisono di soprani, contralti e tenori con accompagnamento orchestrale. E se l’inno originale si riferisce all’atto dell’unzione in cui si rivelano le caratteristiche sacerdotali del sovrano, questo celebra in francese, inglese e tedesco «il grande evento», «le squadre migliori», «i maestri», «the champions». 
Dove la fusione degli inni indica senza alcun dubbio che si sta celebrando sul campo l’unzione dei sovrani del mondo attuale: i pallonari.

Ripeto. So tutto questo, ma ci vado lo stesso. E quando Ibra gonfia la rete avversaria per un attimo cadono anche le ultime resistenze e l’intellettuale un po’ supponente si trova abbracciato a un sudato vicino di posto.

Un tormentoso dubbio lo inquieta: chi avrà abbracciato chi?

martedì 1 gennaio 2013

Carelia russa



Ah, le notti bianche, quelle della Carelia russa, di Petrozavodsk. 
 
Un sole rosseggiante splende ancora a mezzanotte, impedisce di dormire, sconvolge completamente i normali ritmi veglia-sonno (e le finestre senza persiane o tapparelle certo non aiutano): alla luce della notte ci si trova a girare per la città, mentre i bambini giocano, e tutti si imbevono di quel sole che poi in inverno farà crudelmente sentire la sua mancanza.

Visito questa provincia russa a metà giugno, a ridosso del solstizio, in occasione di un Convegno internazionale. Alla fine, ci organizzano una gita a Kizhi, un'isoletta sul Lago Onega raggiungibile con un'ora di battello. Da lontano, sul lago, si staglia l'ardita silhouette della Chiesa della Trasfigurazione (1714), con le 22 guglie argentee disposte simmetricamente. Avvicinandosi, si scopre che l'argento delle guglie è in realtà una copertura a lastre di tremolo, il quale non si deforma e acquista appunto coi decenni un colore argentato; che le pareti sono di robusto pino e che la Chiesa è tutta di legno, costruita con sapienza antica addirittura con chiodi anch'essi di legno.  Intorno alla Chiesa che serviva una comunità di contadini-pescatori e commercianti sono state radunate e disposte in un museo all'aperto le costruzioni in legno tipiche della Russia settentrionale, una regione che non ha conosciuto la servitù della gleba: case ricche e case povere — ma non come quelle dei Russi attuali, osservano i miei accompagnatori —  saune, granai, cappelline.

Da non molto tempo in quest'isola collegata con la terraferma solo d'estate sono tornati a vivere dei pescatori. Domando: «Come si fa a vivere qui d'inverno?». Mi risponde uno studente universitario: «Si vive, semplicemente. Come nei secoli scorsi con l'aggiunta della televisione».
Vladimir, un giornalista originario di queste isole mi racconta. «Tu chiedi come si fa a vivere in queste isole. Vedi, è il mio sogno: andare in pensione e tornare a vivere qui. Ci sono le persone più semplici e più sagge che abbia mai conosciuto. Giro spesso da queste parti, per funghi, frutti di bosco. Un giorno capito in un abitato: quattro case di legno, case povere, vecchie vedove i cui figli si sono trasferiti in città. Busso a una porta. Da dentro mi risponde una vocina indaffarata, con tutta una sequenza di vezzeggiativi che ormai nella lingua russa non esistono più. Mi invita subito in casa, mi mette a tavola senza sapere ancora chi sono e come mi chiamo. Mi rimpinza di quello che ha, e che ha fatto lei: marmellata di lamponi, frittelle di ricotta, pasticcini coi funghi. In una parola: vuota la cantina per me, un ospite che vede adesso per la prima volta. Mi racconta della sua povera vita, del marito morto durante la Guerra Civile, delle difficoltà durante la collettivizzazione forzata, quando non avevano il permesso di tenere una stalla, dei figli che non la vanno mai a trovare. Quando me ne vado, mi rincorre. Ha cinque fiammiferi in mano. Mi dice: "Non sta bene che un ospite vada via senza un regalo. Accetta questi fiammiferi. Siamo poveri ma prendi almeno questi". Le dico: "Grazie. Non ne ho bisogno. Abito in città. Abbiamo il gas". Ma lei a forza, quasi, mi costringe a prenderne almeno uno. "Grazie, caro. Così va bene. Dio ti benedica". Vedi — conclude Vladimir — in città questa saggezza non c'è più».
Viene in mente Matrjona, la protagonista del racconto di Solzhenitsyn, «il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra».

sabato 29 dicembre 2012

Quel gran pezzo della... figlia del capitano


La Voce di Romagna, 13 gennaio 2012


Domenica e lunedì, in prima serata, la Rai ha mandato in onda la Figlia del capitano, minifiction tratta da un romanzo storico di Puškin. Non solo la Rai l’ha mandata in onda, ma i dati auditel l’hanno premiata concedendole la palma della vittoria sul Grande Fratello nella prima puntata, e su Ballarò nella seconda. O gli Italiani hanno mostrato di apprezzarla, oppure hanno pensato che fosse la trasmissione meno peggiore della serata. Ohibò! Puškin, nel frattempo, si rivoltava nella tomba.

Ora, a difesa del povero Puškin e dell’intera letteratura russa, lasciatemi fare qualche considerazione su ‘sta Figlia del capitano prodotta da Edwige Fenech.


Anzitutto, i nomi. Primo Reggiani, che ha sopracciglia nerissime e grossissime come nessun russo si è mai sognato di avere, interpreta la parte del protagonista, Petr Andreevič Grinëv. Grinëv in russo si pronuncia “Griniof”, come Gorbacëv si pronuncia “Gorbaciof”. Per tutte le due serate lo abbiamo sentito chiamare “Grinev”. Non un buon inizio.

L’ambientazione geografica. La “fortezza” in cui si svolge gran parte dei fatti è in realtà un villaggetto collocato nella steppa della regione di Orenburg. Steppa, cioè «pianura di cui non si scorgono i confini, tutt'al più con lievi avvallamenti». Ora, la Fenech production ha pensato bene di fare di questa fortezza una specie di Forte del Far West, come quello di Rin Tin Tin o dei Forti di Forte Coraggio. E l'ha collocato sotto una specie di sperone dolomitico che a Orenburg hanno visto solo in cartolina.

Sui particolari dell’ambientazione culturale è meglio sorvolare per carità di patria. Non si può tuttavia non menzionare la «preghiera a mani giunte» dell’ortodossa figlia del capitano. Gli ortodossi, ovviamente, non pregano a mani giunte: è questa, infatti, una modalità passata dalla cultura laica feudale – come espressione della fedeltà al vassallo – alla preghiera occidentale – espressione della fedeltà a Dio.

Ma la cosa più improbabile di questa minifiction è la trasformazione, in buona parte riuscita, della morigerata Figlia del capitano in una commedia boccaccesca all’italiana (sia detto senza calunniare il povero Boccaccio). Perbacco! Non più tardi di una settimana fa la Fenech ha inveito sui giornali contro il destino cinico e baro che l’ha costretta negli anni Settanta a spogliarsi in film di Serie C: «L’ho fatto solo per sopravvivere, perché ero una ragazza madre. Ma era una grande umiliazione» –­ ha affermato. Con tanti saluti a Walter Veltroni e agli altri estimatori della commedia erotica di quegli anni che non si erano accorti quanto questa svilisse e offendesse la figura della donna.


La Figlia del capitano trasmessa dalla Rai introduce proditoriamente nel racconto di Puškin una Caterina II interpretata dalla stessa Edwige Fenech. Ora, che Caterina abbia avuto numerosi amanti e favoriti, non c’è il minimo dubbio. E tuttavia Puškin mostra l’imperatrice solo nel finale, nelle scene che risolvono l’intera vicenda: il suo incontro in incognito con la protagonista femminile Maša, e il successivo disvelamento con la grazia accordata a Grinëv. Niente amanti, niente sguardi lascivi, nessuna accoppiata nel Palazzo d’Inverno.

Naturalmente, una moderna reinterpretazione della Figlia del capitano  può introdurre nuove scene, nuovi personaggi, per rendere più appetibile il piatto servito dopo cena dalla Rai. E tuttavia colpisce che la Fenech trasformi Caterina II in una nonna dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. Perché darsi la pena di scomodare Puškin, a questo punto. Sarebbe stato più onesto produrre direttamente una minifiction intitolata La nonna di Giovannona Coscialunga o L’Ubalda: vent’anni dopo è ancora calda.

Alla fine della storia, dopo che è stata ristabilita la verità dei fatti, Grinëv si vede restituiti onore e dignità e si sposa con l’amata. Quella che in Puškin è una paginetta finale che vede i giovani convolare a nozze, nella fiction della Fenech vede i due innamorati infilarsi sotto le lenzuola ancor prima del matrimonio. Con tanti saluti alla coerenza psicologica e alla verosimiglianza storica del racconto.

Se tanto mi dà tanto, quando gireranno i nuovi Promessi sposi, faranno di don Rodrigo il capo della piovra e di Lucia una cubista di Cervia. 

Il vecchio che diceva il rosario

 La Voce di Romagna, 6 luglio 2012
 

«Un ragazzo entrò nella carrozza del treno alla fermata di una piccola città universitaria della Francia meridionale: era circa il 1890. Il ragazzo, fresco di laurea, si sedette vicino a un anziano signore che sembrava sonnecchiare. Quando il treno riprese la sua corsa sobbalzando, dalle mani del vecchio cadde un rosario. Il ragazzo si affrettò a raccoglierlo e ad allungarlo al signore, senza risparmiarsi un’osservazione: “Suppongo che lei stesse pregando, signore...”.
“Hai ragione. Stavo pregando” – rispose il vecchio.  
“Sono stupito che ai nostri tempi – fece il ragazzo – qualcuno sia ancora così ignorante e superstizioso. I nostri professori all’università non credono in queste cose”. E il ragazzo si impegnò a “illuminare” il suo anziano compagno di viaggio. “Sì – proseguì il giovane – oggigiorno la gente istruita non crede più in simili sciocchezze”.
“Davvero!?” – replicò l’anziano, piuttosto sorpreso.
“Sì, signore. E, se vuole posso inviarle alcuni libri illuminanti al riguardo”.
“Mi farebbe molto piacere” – fece in tempo a dire l’anziano mentre si accingeva a scendere dal treno. “Mi puoi mandare i libri a questo indirizzo”. Porse al giovane un biglietto da visita e questi lesse l’indirizzo:
Louis Pasteur, Direttore dell’Istituto di Ricerca “Pasteur”, Parigi».
Il gustoso aneddoto cade nell’anniversario della prima iniezione antirabbica a un ragazzo morso da un cane infetto eseguita appunto dal grande scienziato Louis Pasteur, il 6 luglio 1885. “Gustoso” – perché smonta efficacemente uno dei miti più diffusi dall’Illuminismo in qua, e cioè che la fede cristiana è cosa per creduloni, la preghiera è una superstizione, il rosario, poi, roba per vecchi sonnacchiosi. Sì, peccato che quel signore anziano – che forse meditava, più che sonnecchiare – era uno dei più grandi scienziati del suo tempo, il tempo del positivismo e dello scientismo trionfante. Uno scienziato la cui grandezza il mondo fu costretto a riconoscere mentre questi era ancora in vita, e in piena attività, fondando un Istituto per la lotta alla rabbia e affidando a lui la direzione. Uno scienziato che passò la vita a risolvere i maggiori problemi chimici, medici, biomolecolari del suo tempo: 1857 – studi sulla fermentazione; 1862 – dimostrazione dell’inesistenza della generazione spontanea; 1863 – studi sulle malattie del vino; 1865 – studi risolutivi sulle malattie dei bachi da seta che avevano invaso tutti gli allevamenti; 1871 – studi sulle malattie della birra, e invenzione del processo di pastorizzazione (appunto); 1880 – studi sul colera dei polli scoperta del relativo vaccino; 1881 – studi sul carbonchio di bovini e ovini e scoperta del vaccino; 1885 – studi sulla rabbia e scoperta del relativo vaccino. Ah, c’è da aggiungere che Pasteur è all’origine dell’odierna microbiologia e immunologia nonché dell’applicazione delle scoperte microbiologiche alla medicina e alla chirurgia. A lui si deve lo studio, la prevenzione (asepsi) e l’immunizzazione per la profilassi delle malattie infettive. Insomma, se siamo vivi, se siamo adulti e vaccinati, se abbiamo sconfitto il carbonchio ecc. lo dobbiamo in gran parte al signore che, in treno, recandosi al lavoro, diceva il rosario. Domanda: è da vecchi rimbambiti il rosario? Oppure è la preghiera propria degli intellettuali, preghiera di chi può facilmente cadere nell’orgoglio della “scienza che gonfia” e che pertanto è bene che ripeta, meditando “Ave o Maria, piena di grazie...”, “Santa Maria, Madre di Dio”...? E perché poi: un intellettuale non può forse applicare la sua scienza e la sua capacità di riflessione al mistero della maternità di Maria, all’incarnazione, alla Theotokos, alla pensiero della propria morte tra le braccia della Madonna?
Oh, sì, Odifreddi troverà da ridire: scienza e fede si oppongono irrimediabilmente. Sì, certo. Anche se è un po’ tardi, ormai, Odifreddi può sempre mandare anche i suoi libri a: Institut Pasteur 25 rue du Docteur Roux 75015 PARIS, FRANCE. Li metteranno sotto la statua del vecchio che diceva il rosario. Chissà, forse pregava anche per i suoi colleghi presenti e futuri, malati di ateismo rabbioso (morbo per cui, però, non esiste vaccino). 

giovedì 27 dicembre 2012

A t’ voj ben



La Voce di Romagna, 29 settembre 2006



Qualche tempo fa scrivevo dello “spagogn”, il tipo di romagnolo rustico, scontroso, quello che rifiuta i complimenti e gira l’angolo non appena il discorso diventa troppo sentimentale e sdolcinato. Ora trovo una nuova conferma di questo tratto romagnolo in un libro di “modi di dire” e indovinelli in dialetto raccolti da Libero Ercolani, laddove tratta il vocabolo “moglie”. Scrive Ercolani:

“ ‘Su mê’: Sua (o loro) madre. La moglie. Il vecchio romagnolo difficilmente diceva: ‘mia moglie’; altrettanto difficilmente la indicava con il nome di battesimo. Ricorreva all’espressione ‘su mê’, indicandola indirettamente come la madre dei propri figli.

‘Cla dòna ch’a j ho a ca’: Quella donna che ho a casa. Un altro giro di parole con il quale il vecchio romagnolo evitava di dire: ‘mia moglie’. Così come per non dire ‘ti amo’ (‘amare’ non esiste nel dialetto romagnolo) diceva ‘a t’ voj ben’, ti voglio bene. Forse perché ‘ti amo’ per il suo carattere era troppo raffinato”.

Fin qui Ercolani, il quale, conseguentemente, nel suo “Nuovo Vocabolario Italiano Romagnolo” non riporta il verbo “amare”, traduce “amante” con “amig” e “amoreggiare” con “smurusêr”.

Fa riflettere questa nostra natura scontrosa di romagnoli, questo rivoltare la lingua per evitare di dire “ti amo”, quasi fosse l’ammissione di un’imperdonabile debolezza, una resa disonorevole, per giunta a beneficio di una donna. Si sente qui l’eco dello spirito romagnolo indipendente (e un po’ misogino) che rifiuta di mostrarsi incatenato, aggiogato. Poi – è facile immaginare – una volta chiusa la porta e lasciata la curiosità dei vicini fuori di casa, le presunte indipendenze venivano probabilmente chiarite, le gerarchie ristabilite. Sia chiaro: non senza pagar pegno, non senza lotta. Oggi diremmo che il matrimonio romagnolo doveva essere “challenging”, per dire che era anche una sfida, una contesa d’amore, che non era il magico incastro raccontato dalla letteratura romantica. No; come tutte le relazioni autentiche richiedeva un paziente lavoro di lima e di pialla per smussare gli spigoli e addolcire i caratteri. Il matrimonio non era una telenovela e “ti amo” non era una frase banale, che si può dire a chiunque, più volte.

In compenso, in questo “a t’ voj ben” era implicito l’amore come frutto della volontà, come il “volere il bene” dell’altro. In un mondo dove i genitori hanno rinunciato a indicare ai figli qual è il loro bene e i politici non si vergognano di nulla e tutto giustificano perché “non è penalmente perseguibile”; in una società in cui la massima fondativa della morale “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (Mi è amico Platone, ma mi è più amica la verità) viene regolarmente rovesciata nel suo opposto (“Prima gli amici indipendentemente dal loro valore”) e in cui la volontà sembra che non abbia a che fare con il matrimonio (“Cosa ci potevo fare? Mi sono innamorato”), il vecchio romagnolo che a fatica tira fuori un onesto “ti voglio bene” ci sta davvero simpatico.

Pensa che il bene esista, ha di mira il bene, il bene suo e della moglie. È riservato, non si svende, ha una sua interiorità, non è a disposizione della prima sventola che passa. E un giorno, ormai da vecchio, vincendo infine il proprio pudore, si avvicinerà a sua moglie, e quando ormai lei non ci conterà più, le sussurrerà all’orecchio: “Ti amo”. E lei, con il sorriso di chi la sa lunga gli risponderà: “Al saveva nêca prêma” (Lo sapevo già).

domenica 23 dicembre 2012

La bellissima follia dell'adorazione perpetua

I preti chiudono le chiese, i laici le riaprono


La Voce di Romagna, 14 settembre 2012





Nel centro di Urbino, a cento metri dalla Casa di Raffaello, c'è una chiesa piccola, la cui facciata si confonde con quelle dei palazzi contigui. È la Chiesa di Santo Spirito. Fino a non molto tempo fa c'era una messa feriale, a ora tarda, poi, morto l'ennesimo prete ottuagenario non rimpiazzato a causa del calo delle vocazioni, la messa è stata abolita. Dopo qualche anno, la svolta. Non so per iniziativa di chi, sta di fatto che la Chiesa di Santo Spirito si è aperta all'adorazione perpetua.

Sì, avete letto bene: adorazione perpetua. Cioè la cosa più folle e più santa che si può immaginare. Più folle - nel senso che, per chi non crede, per chi vede le cose solo con gli occhi della carne, si tratta di passare del tempo - ore - a guardare un pezzo di pane. Più santa - nel senso che per chi vede le cose non solo con gli occhi di carne ma anche con gli occhi della fede, si tratta di contemplare adoranti Dio stesso sotto le apparenze di un pezzo di pane. Dio stesso, il creatore di questo nostro mondo, colui che lo regge nell'esistenza, l'immenso, il perfetto, lo stesso che ci ha salvati uno ad uno con la sua morte e resurrezione. Dio.

Adorazione - significa contemplare stupiti il fatto meraviglioso di questo Dio che non è rimasto in cielo, ma si è fatto uno di noi, ha assunto una natura umana. Di più: significa contemplare questo atto di amore stupefacente per cui Dio, l'infinito, si è reso vicino all'uomo di tutti i tempi prendendo le fattezze non di un uomo, ma addirittura di una cosa, un pezzo di pane.

E l'aggettivo "perpetua" sta a indicare che notte e giorno, H24 - come si dice oggi - davanti a quel Dio in forma di ostia, c'è qualcuno. Minima organizzazione, tabellone con post-it, e soprattutto tanti volontari disposti a passare almeno un'ora a parlare con Dio, a guardare, contemplare, pregare Dio. Anche alle 11 di sera, anche alle 4 di notte: sempre. 
Follia, follia! Per qual motivo svegliarsi alle 3 e 1/2, nel pieno della notte, lavarsi gli occhi, vestirsi e uscire di casa per andare un'ora a Santo Spirito? Per fare compagnia a Colui che è morto per me, anzitutto. Per riconoscenza, per parlare con Lui da solo a solo, per chiedergli cose, confidargli gioie e dolori, raccontargli delle nostre piccole lotte interiori, delle sconfitte e delle vittorie sul nostro pessimo carattere, per affidargli la figlia di quell'amica che ha qualche problema, il marito di quell'altra che la vuole lasciare, le mille vicende positive e negative della nostra vita misera e bella... E per contemplare la vita che ci aspetta nel seno di Dio, per cercare di strappare a quel Dio fatto pezzo di pane qualche segreto incomunicabile.

Do un'occhiata al tabellone di questi che si autodefiniscono "adoratori turnisti". Non c'è un buco libero, non c'è un'ora disponibile. Anzi, su diverse ore ci sono più nomi. E sono nomi di laici, di persone comuni, che la mattina si devono alzare per andare a lavorare. Vedo solo il nome di un prete - tale d. Michele - e di una suora, ma su 168 ore settimanali si saranno accaparrati 3 o 4 ore in tutto; il resto è appannaggio di gente come me e te. Riconosco addirittura il nome di qualche collega universitario (Urbino è piccola, si sa...).

La cosa è più che logica. Una volta ri-scoperta con il Concilio Vaticano II la chiamata universale alla santità di ogni cristiano, è ovvio che si smonti da sé l'artificiale e ipocrita divisione tra gli specialisti del sacro – preti e suore – e un popolo di fedeli, per così dire, di serie B. No, la Chiesa di Santo Spirito in Urbino, e non è la sola, è lì a testimoniare che il compito che un tempo veniva riservato in esclusiva ai tanti "Ordini religiosi eucaristici" (in particolar modo femminili), ora se lo prendono sulle spalle anche i laici, soprattutto i laici. I quali, se vogliono vivere una vita cristiana degna di questo nome, lì, a quella Eucaristia, vanno ad attingere forza e chiarezza. Anche alle 4 di notte.

Mussolini, Mao, Putin, Grillo: populisti a mollo



La Voce di Romagna, 12 ottobre 2012

L’agenzia internazionale Reuter non ha dubbi nel commentare la notizia: «Il politico populista Beppe Grillo, leader del secondo partito più ampio d’Italia, ha lanciato la campagna elettorale in Sicilia in modo pittoresco, attraversando a nuoto l’infido Stretto di Messina che separa l'isola dall’Italia continentale».
Populista: cioè, stando al Dizionario Treccani, «rappresentante di quell’ atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi». Il riferimento storico è, ovviamente, al populismo russo, movimento di fine Ottocento che vide tanti intellettuali di sinistra intraprendere una letterale «andata al popolo»: abbandonata la comoda vita di città, si traferirono in campagna, con l’orgoglio tipicamente intellettualoide di spiegare ai contadini come avrebbero dovuto opporsi al regime zarista. Finì con gli intellettuali cacciati a bastonate dai contadini che non volevano saperne dei metodi violenti che i populisti propugnavano. Questi non si dettero per vinti e moltiplicarono le loro iniziative violente, culminate nell’assassinio di tanti ministri (ovviamente, i più intelligenti e attivi) e dell’imperatore Alessandro II (proprio quello che aveva abolito la servitù della gleba nel 1861).
A ben vedere dunque, l’essenza storica del «populista» consiste nel cercare di sintonizzarsi con un «popolo» spesso mitico e irreale, lisciarlo demagogicamente e proporre qualcosa di estremamente generico legato alla propria persona carismatica (è la versione peronista del populismo), se mai sconfinando nella violenza antisistema.
Essenziale al populista è dunque l’affermazione del proprio potere carismatico. Ecco allora spiegati gli atteggiamenti sempre sopra le righe del leader populista, che tanto più è costretto a urlare quanto meno è portatore di contenuti.
A quanto pare, la sfida con le forze della natura ben si presta a simboleggiare il potere carismatico del leader populista.
Una delle foto Alinari più note di Mussolini mostra il duce nel 1933 mentre nuota a Riccione, negli stessi anni in cui in un discorso tenuto a Napoli fra acclamazioni deliranti, aveva fatto sua l’affermazione chiave del populismo: «Andare verso il popolo, realizzare concretamente la nostra civiltà economica, che è lontana dalle aberrazioni monopolistiche del bolscevismo, ma anche dalle insufficienze dell'economia liberale: se ci fossero dei diaframmi che volessero interrompere questa comunione diretta del regime col popolo noi, nel supremo interesse della nazione, li spezzeremo».
Nel 1966 Mao pensò bene di affrontare le acque inquinate dello Yangtze per lanciare la Rivoluzione culturale scavalcando il potere della burocrazia del partito e appellandosi populisticamente alle giovani Guardie Rosse. 
E Putin? Che dire di Putin, il più populista dei leader politici russi? Be’, Putin ha un’intera serie di foto che lo ritraggono in atteggiamenti macho, atteggiamenti con cui intende confermarsi l’ideale di ogni Russo (e Russa): eccolo allora ripreso mentre fa judo o caccia animali feroci, mentre spara, pesca o fa snowboard, ma soprattutto, mentre nuota. Se Brezhnev – rappresentante del potere burocratico, non carismatico – poteva tranquillamente starnazzare in piscina con un patetico salvagente, il populista Putin non può che nuotare a delfino in un fiume siberiano.
Mussolini, Mao, Putin: la compagnia populista di Grillo.