Un sole
rosseggiante splende ancora a mezzanotte, impedisce di dormire, sconvolge
completamente i normali ritmi veglia-sonno (e le finestre senza persiane o
tapparelle certo non aiutano): alla luce della notte ci si trova a girare per
la città, mentre i bambini giocano, e tutti si imbevono di quel sole che poi in
inverno farà crudelmente sentire la sua mancanza.
Visito
questa provincia russa a metà giugno, a ridosso del solstizio, in occasione di
un Convegno internazionale. Alla fine, ci organizzano una gita a Kizhi,
un'isoletta sul Lago Onega raggiungibile con un'ora di battello. Da lontano,
sul lago, si staglia l'ardita silhouette della Chiesa della Trasfigurazione
(1714), con le 22 guglie argentee disposte simmetricamente. Avvicinandosi, si
scopre che l'argento delle guglie è in realtà una copertura a lastre di
tremolo, il quale non si deforma e acquista appunto coi decenni un colore
argentato; che le pareti sono di robusto pino e che la Chiesa è tutta di legno,
costruita con sapienza antica addirittura con chiodi anch'essi di legno.
Intorno alla Chiesa che serviva una comunità di contadini-pescatori e
commercianti sono state radunate e disposte in un museo all'aperto le costruzioni
in legno tipiche della Russia settentrionale, una regione che non ha conosciuto
la servitù della gleba: case ricche e case povere — ma non come quelle dei
Russi attuali, osservano i miei accompagnatori — saune, granai, cappelline.
Da non molto tempo in quest'isola collegata con la terraferma solo d'estate sono tornati a vivere dei pescatori. Domando: «Come si fa a vivere qui d'inverno?». Mi risponde uno studente universitario: «Si vive, semplicemente. Come nei secoli scorsi con l'aggiunta della televisione».
Vladimir,
un giornalista originario di queste isole mi racconta. «Tu chiedi come si fa a
vivere in queste isole. Vedi, è il mio sogno: andare in pensione e tornare a
vivere qui. Ci sono le persone più semplici e più sagge che abbia mai conosciuto.
Giro spesso da queste parti, per funghi, frutti di bosco. Un giorno capito in
un abitato: quattro case di legno, case povere, vecchie vedove i cui figli si
sono trasferiti in città. Busso a una porta. Da dentro mi risponde una vocina
indaffarata, con tutta una sequenza di vezzeggiativi che ormai nella lingua
russa non esistono più. Mi invita subito in casa, mi mette a tavola senza
sapere ancora chi sono e come mi chiamo. Mi rimpinza di quello che ha, e che ha
fatto lei:
marmellata di lamponi, frittelle di ricotta, pasticcini coi funghi.
In una parola: vuota la cantina per me, un ospite che vede adesso per la prima
volta. Mi racconta della sua povera vita, del marito morto durante la Guerra
Civile, delle difficoltà durante la collettivizzazione forzata, quando non
avevano il permesso di tenere una stalla, dei figli che non la vanno mai a
trovare. Quando me ne vado, mi rincorre. Ha cinque fiammiferi in mano. Mi dice:
"Non sta bene che un ospite vada via senza un regalo. Accetta questi
fiammiferi. Siamo poveri ma prendi almeno questi". Le dico: "Grazie.
Non ne ho bisogno. Abito in città. Abbiamo il gas". Ma lei a forza, quasi,
mi costringe a prenderne almeno uno. "Grazie, caro. Così va bene. Dio ti
benedica". Vedi — conclude Vladimir — in città questa saggezza non c'è
più».



Viene
in mente Matrjona, la protagonista del racconto di Solzhenitsyn, «il Giusto
senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città.
Né tutta la terra nostra».
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