venerdì 4 gennaio 2013

The Champions


 La Voce di Romagna, 30 settembre 2011




Ogni tanto, non tutti gli anni, vado a vedere una partita allo stadio. Ci vado con i miei figli – debole scusa – e portandomi dietro le (sacrosante) lamentele di mia moglie sull’inevitabile calo di efficienza scolastica dei ragazzi il giorno successivo.

E ci vado volentieri. Non che partecipi al rito che si svolge allo stadio in modo ingenuo. Sono infatti perfettamente consapevole del rischio individuato dai sociologi, primo fra tutti il grande prof. Morra, che anche il «tempo libero può venire inserito in un grande progetto, tendenzialmente totalitario, che possiamo definire la ‘pianificazione consumistica del tempo libero’ ».

Come dire: vado a vedere il Milan (ah, sì, dimenticavo: tifo Milan, come Berlusconi e Bertinotti), cosciente che è la squadra del Presidente del Consiglio, e che questi ha costruito abilmente un mito intorno agli undici pallonari con la maglia a strisce rossonere; e consapevole, pure, che staccandomi dalla vita reale, prendendo la macchina con i figli vestiti da Boateng o da Pato, parcheggiando vicino allo stadio e camminando fianco a fianco con altre 80.000 mila persone vestite da Boateng o da Pato, non sto gestendo autonomamente il mio tempo libero, come dovrebbe essere, ma lascio che il mio tempo sia inserito in un grande e anonimo rito tribale.

Lo so. So tutto questo. Ma ci vado lo stesso.

Ci vado mantenendo un piede fuori dalla calca, da intellettuale diffidente che non si lascia trascinare dal «ventre» dello stadio. Sì, perché quell’unità indistinta che è la massa che affolla lo stadio ha i suoi umori, le sue espressioni inquietanti, quasi fosse un gigantesco Io collettivo: l’ “OH” sospirato all’unisono da decine di migliaia di persone per un’occasione svanita, gli inesorabili fischi alla comparsa della quadra avversaria (fischi che coprono allegramente il motto della Uefa, “Rispetto e fair play”…). A ciò si aggiungono da un po’ di tempo le azioni provocate da chi ha in mano il microfono dello stadio. Nell’annunciare i giocatori del Milan, lo speaker occulto pronuncia il nome e attende che lo “Stadio” urli il relativo cognome. Se un sociologo cercava il simbolo del progetto totalitario del calcio, eccolo servito. Quando poi si tratta, come il mercoledì sera, di una partita di Champions League, allora è manifesto che «il progetto tendenzialmente totalitario» è in realtà un rito secolarizzato, una nuova forma di sacralità. A parte le maglie-reliquie, e il divismo (da divo = dio) dei giocatori, non è un caso che l’inno della Champions League sia stato creato nel 1992 dall’inglese Tony Britten adattando l’Inno dell’unzione del sovrano inglese composto da Haendel nel 1700.
Dell’inno di Haendel tratto dalla Bibbia di Re Giacomo, quello della Champions League ha mantenuto e forse addirittura accentuato la solennità espressa dall’unisono di soprani, contralti e tenori con accompagnamento orchestrale. E se l’inno originale si riferisce all’atto dell’unzione in cui si rivelano le caratteristiche sacerdotali del sovrano, questo celebra in francese, inglese e tedesco «il grande evento», «le squadre migliori», «i maestri», «the champions». 
Dove la fusione degli inni indica senza alcun dubbio che si sta celebrando sul campo l’unzione dei sovrani del mondo attuale: i pallonari.

Ripeto. So tutto questo, ma ci vado lo stesso. E quando Ibra gonfia la rete avversaria per un attimo cadono anche le ultime resistenze e l’intellettuale un po’ supponente si trova abbracciato a un sudato vicino di posto.

Un tormentoso dubbio lo inquieta: chi avrà abbracciato chi?

martedì 1 gennaio 2013

Carelia russa



Ah, le notti bianche, quelle della Carelia russa, di Petrozavodsk. 
 
Un sole rosseggiante splende ancora a mezzanotte, impedisce di dormire, sconvolge completamente i normali ritmi veglia-sonno (e le finestre senza persiane o tapparelle certo non aiutano): alla luce della notte ci si trova a girare per la città, mentre i bambini giocano, e tutti si imbevono di quel sole che poi in inverno farà crudelmente sentire la sua mancanza.

Visito questa provincia russa a metà giugno, a ridosso del solstizio, in occasione di un Convegno internazionale. Alla fine, ci organizzano una gita a Kizhi, un'isoletta sul Lago Onega raggiungibile con un'ora di battello. Da lontano, sul lago, si staglia l'ardita silhouette della Chiesa della Trasfigurazione (1714), con le 22 guglie argentee disposte simmetricamente. Avvicinandosi, si scopre che l'argento delle guglie è in realtà una copertura a lastre di tremolo, il quale non si deforma e acquista appunto coi decenni un colore argentato; che le pareti sono di robusto pino e che la Chiesa è tutta di legno, costruita con sapienza antica addirittura con chiodi anch'essi di legno.  Intorno alla Chiesa che serviva una comunità di contadini-pescatori e commercianti sono state radunate e disposte in un museo all'aperto le costruzioni in legno tipiche della Russia settentrionale, una regione che non ha conosciuto la servitù della gleba: case ricche e case povere — ma non come quelle dei Russi attuali, osservano i miei accompagnatori —  saune, granai, cappelline.

Da non molto tempo in quest'isola collegata con la terraferma solo d'estate sono tornati a vivere dei pescatori. Domando: «Come si fa a vivere qui d'inverno?». Mi risponde uno studente universitario: «Si vive, semplicemente. Come nei secoli scorsi con l'aggiunta della televisione».
Vladimir, un giornalista originario di queste isole mi racconta. «Tu chiedi come si fa a vivere in queste isole. Vedi, è il mio sogno: andare in pensione e tornare a vivere qui. Ci sono le persone più semplici e più sagge che abbia mai conosciuto. Giro spesso da queste parti, per funghi, frutti di bosco. Un giorno capito in un abitato: quattro case di legno, case povere, vecchie vedove i cui figli si sono trasferiti in città. Busso a una porta. Da dentro mi risponde una vocina indaffarata, con tutta una sequenza di vezzeggiativi che ormai nella lingua russa non esistono più. Mi invita subito in casa, mi mette a tavola senza sapere ancora chi sono e come mi chiamo. Mi rimpinza di quello che ha, e che ha fatto lei: marmellata di lamponi, frittelle di ricotta, pasticcini coi funghi. In una parola: vuota la cantina per me, un ospite che vede adesso per la prima volta. Mi racconta della sua povera vita, del marito morto durante la Guerra Civile, delle difficoltà durante la collettivizzazione forzata, quando non avevano il permesso di tenere una stalla, dei figli che non la vanno mai a trovare. Quando me ne vado, mi rincorre. Ha cinque fiammiferi in mano. Mi dice: "Non sta bene che un ospite vada via senza un regalo. Accetta questi fiammiferi. Siamo poveri ma prendi almeno questi". Le dico: "Grazie. Non ne ho bisogno. Abito in città. Abbiamo il gas". Ma lei a forza, quasi, mi costringe a prenderne almeno uno. "Grazie, caro. Così va bene. Dio ti benedica". Vedi — conclude Vladimir — in città questa saggezza non c'è più».
Viene in mente Matrjona, la protagonista del racconto di Solzhenitsyn, «il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra».